Massimiliano Lussana racconta la mostra in corso a Palazzo Ducale fino al 1° aprile, tema di un “Mercoledì della cultura” di Montallegro
Non è una mostra, è un kolossal.
E così, con Artemisia Gentileschi, il “Mercoledì (e non solo) della cultura” si trasforma in una sorta di notte degli Oscar, con emozioni per i dipinti esposti, ma anche e soprattutto per le storie, la sceneggiatura, l’allestimento di questa mostra in corso a Palazzo Ducale fino al primo aprile.
In qualche modo, questo allestimento è anche il benvenuto di Villa Montallegro e di Francesco Berti Riboli a Ilaria Bonacossa, nuova direttrice di Palazzo Ducale, al cui discorso programmatico gli amici di questa comunità sono stati invitati a partecipare, proprio per apprezzare il lavoro di Palazzo Ducale, come se fosse un vero e proprio spin off dei mercoledì della cultura. E vabbè se era giovedì.
Il sottotitolo, della mostra, “Coraggio e passione”, dice già tutto, perché Artemisia è tutto questo, quasi una Caravaggio – e vedremo che Caravaggio c’entra, c’entra moltissimo, in tutto questo – in gonnella, e preciso subito che non voglio mancare di rispetto a nessuno. Perché, vedete, ho trovato le polemiche sull’allestimento di questa mostra, il fatto che la “sala dello stupro” sia diventata un caso nazionale, assolutamente esagerate e fuori posto. Perché, anzi, credo, fortemente credo, che quella sala sia proprio il centro della mostra e ciò che più di tutto aiuta a capirla. E il sangue che cola un grande atto di rispetto nei confronti delle donne, non certo un’offesa.
Ma andiamo con ordine e raccontiamo questo “Mercoledì (e non solo) della cultura” di Villa Montallegro e questa mostra dicendo che ci sono due modi di entrare a Palazzo Ducale: uno è quello “per Artemisia” e quindi per vedere i quadri della pittrice, di suo padre Orazio, di Agostino Tassi, dei caravaggeschi genovesi, di Gioacchino Assereto, Bernardo Strozzi, Domenico Fiasella e altre vecchie conoscenze dei nostri “Genovese, per caso”, anche perché a raccontarli c’è spesso Anna Orlando – variabile indipendente delle nostre storie – curatrice di questa mostra insieme a Costantino D’Orazio.
Così, mentre uno dei quadri più famosi di Artemisia va in tour di Sanremo, fiore all’occhiello delle iniziative collaterali di Regione Liguria per il Festival, la mostra racconta anche altre storie rispetto a quelle, comunque bellissime, dei quadri della pittrice, la prima a rompere il monopolio maschile nel mondo dell’arte. Ed è la mostra a cui si va a scoprire “di Artemisia”.
Nel foyer del Teatro Ariston sarà esposta un’antica replica del primo Seicento dell’opera della Gentileschi dal titolo ‘Giuditta e la sua ancella con le testa di Oloferne’, un olio su tela di 127 x 95 come mai mostrato al pubblico e conservato nei depositi dei Musei di Strada Nuova, a Palazzo Rosso. “Un’immagine di grande impatto, un soggetto rappresentato più volte dalla stessa artista in composizioni differenti, che diventa di fatto un manifesto della lotta delle donne contro l’oppressione maschile, e immediatamente si trasforma in un’icona ancora oggi di grande attualità, che viene riprodotta e ripresa da diversi altri artisti” racconta Regione Liguria che, con la coordinatrice delle Politiche Culturali Jessica Nicolini, ha sposato il progetto di Giovanni Toti, bis del Rubens dello scorso anno.
Ma, per l’appunto, oltre ai dipinti, questo “Giuditta e Oloferne”, ma tutta questa mostra, raccontano un’altra storia. Che è il valore aggiunto di questo “Mercoledì della cultura”: l’importanza di Artemisia, della sua vita e della sua opera nella lotta contro la violenza di genere. E non è un caso che siano molte anche le rappresentazioni di “Giuditta e Oloferne”, così come quelle del riscatto femminile, da Sansone e Dalila ad altri soggetti storici dove le donne sono protagoniste. Con la vendetta sugli uomini come variabile indipendente. Ma anche la furbizia delle donne.
E così abbiamo vissuto passo passo il processo a Agostino Tassi, collega ed amico del padre, dove Artemisia viene descritta dalla difesa come una poco di buono, con gli amici di lui che infangano la pittrice, come se se la fosse cercata.
Ma il viaggio attraverso le sale con video, racconti, documenti, esposizione degli atti del processo, passa attraverso la domanda che sconvolge tutti: come è possibile che Orazio Gentileschi, papà di Artemisia, abbia potuto continuare a lavorare con Agostino per gli affreschi del Casino delle Muse, di cui la mostra offre una visita virtuale, dopo quello che aveva fatto a sua figlia? E la risposta sta in un impegno a un matrimonio riparatore che Tassi avrebbe fatto. E su questo punto torna spesso anche Artemisia nel processo.
E qui si passa dal racconto dei dipinti a quello di un’intera epoca. Ad esempio, leggendo gli atti del processo, emerge che a quel tempo le testimonianze di donne e plebei valevano meno rispetto a quelle di uomini e ricchi.
Ed è impressionante vedere come Artemisia sia stata torturata, con un sistema di cordini che rischiavano di spezzarle i polpastrelli, per vedere se confermava le accuse o, meglio, se le ritrattava. Tortura dolorosissima comunque, molto in voga all’epoca, ma ancora più dura se si considera che era riservata a una pittrice, che avrebbe potuto perdere la mano, strumento principe della sua arte.
Tutto questo emerge dal fascicolo processuale, che è esposto in mostra e che è il più corposo conservato dell’epoca, con tanto di disegno di un mantice con il fuoco che è quasi un autoritratto metaforico di Agostino, considerato dai giudici una piena confessione.Al termine di quel processo, Tassi fu condannato, anche se non andò mai in galera.
Ma la mostra, ovviamente, non è solo il racconto del processo, quasi una puntata straordinaria di “Un giorno in pretura”, ma anche il racconto – attraverso i quadri – dello straordinario fervore pittorico a Genova, dove la presenza della Repubblica permetteva libertà anche nei soggetti. A Genova, infatti, ogni famiglia invitava chi voleva, lasciando mano libera anche sui soggetti, con molta più libertà pittorica rispetto alle committenze di Chiesa e Impero.
E non manca una panoramica su Roma Criminale, quasi l’anticipo di “Suburra” o “Romanzo Criminale” con il racconto di come Orazio e tutti i pittori dell’epoca sono impegnati in una sorta di “tutti contro tutti” in cui anche la diffamazione contro i colleghi è uno strumento classico per aggiudicarsi maggiori commesse. E quindi Michelangelo (Caravaggio), Orazio e tutti i loro colleghi giocano ogni arma dialettica e no, lecita o no, a loro disposizione. Una guerra per bande.
E, fra tutti, Orazio, il papà di Artemisia, non è propriamente un agnellino e Giovanni Baglione, nella sua biografia, scrive che “più nel bestiale che nell’humano egli dava. Se Horatio Gentileschi fosse stato di humore più praticabile avrebbe fatto assai buon profitto nella vita”.
Insomma, è una mostra da vedere.
Da qualsiasi parte la si guardi, anche per la presenza di “curiosità” e aneddoti su ogni quadro esposto e racconti che rendono ancor più avventurosa la vita di Artemisia, che quando andò a Firenze si chiamava Artemisia Lomi, che firma i suoi quadri, come l’Annunciazione, con un cartellino per terra nel dipinto, come fosse un biglietto da visita perso, che Bramer rappresenta con i baffoni in un quadro famosissimo per testimoniare come fosse amica dei pittori olandesi a Roma, maestri di bisboccia e scandali.
Ma è Roberto Longhi nel 1916 a raccontare tutto questo come solo lui, il padre della storia dell’arte in Italia, sa fare: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità”.
Un kolossal appunto, con Oscar alla migliore pittrice protagonista di sempre.