I Mercoledì della cultura
Barocco Segreto a Palazzo della Meridiana
Dal Barocco ai primi del Novecento, nel racconto di Massimiliano Lussana
È multitasking il “Mercoledì (e non solo) della cultura” che stiamo per raccontare, perché parte dal Barocco per arrivare ai primi del Novecento, parte dai committenti storici per arrivare ai Lloyd’s, parte da Palazzo della Meridiana per arrivare alle case private di tanti genovesi, parte da Villa Montallegro per arrivare al mondo, come sempre.
Claudia Bergamaschi, la guida, trasuda calore – il giorno di visita è torrido e solo la sapienza di Sara Pellegrini in cerca di un refolo di vento sulla scalinata che porta a Palazzo della Meridiana guida correttamente il percorso di avvicinamento al proprio gruppo, con la sua capacità innata di scoprire ogni allergia, anche quella alle botte di calore – e passione nel raccontare questa splendida storia.
E quindi si parte dal chiostro all’ingresso, con le architetture dei primi del Novecento targate Coppedè ed Ivan McKenzie, che per noi è il nome di un castello, ma è anche il fondatore di Ausonia assicurazioni. Insomma, si viaggia dai Lloyd’s al Palazzo dei Rolli più disorganico rispetto a tutto il resto, proprio perché mette insieme il pozzo rinascimentale e le vetrate liberty, il siglo de Oro e il passaggio al Novecento.
Da qui, poi, si entra a “Barocco segreto” che è una mostra, come sempre curata da Anna Orlando quando è in ballo Palazzo della Meridiana, che è quasi uno “spin-off” del progetto Superbarocco “ufficiale”, come un bootleg per i cultori di musica clandestina, i concerti registrati e commercializzati che sono chicche per amatori, ricercatissime dagli appassionati.
E così si spazia dalla vetrinetta degli argenti, con particolare attenzione alla pinza per il pane, alla bugia per le candele e, soprattutto, allo smoccolatoio per i pezzi di stoppini che cadevano dalle candele. E da qui nasce il detto “reggere la candela” che ha sempre interessato noi ragazzi un po’ sfigatini e un po’ timidi quando venivamo coinvolti da qualche amico superfigo in un’uscita di gruppo, dove ovviamente i finalizzatori erano loro e noi si giocava in difesa che nemmeno Blessin, poi evocato spiritualmente anche quando si parla di arte luterana tedesca rispetto a quella cattolica italiana.
Il passaggio successivo sono le acquesantiere con la Madonnina più presente in ogni edicola genovese, e anche qui un tocco di classe della nostra guida quando ci dice che, persino all’Oviesse di Campetto, è possibile imbattersi nella splendida immagine di questa Vergine, fra un camerino prova e una placca antitaccheggio.
Le vetrinette successive sono quelle delle maioliche ed è l’occasione di imparare la differenza fra ceramica e maiolica e di vedere lo splendido colore blu cobalto, su ispirazione cinese, con un ottimo uso della chimica e dello studio delle temperature nel realizzare questi piatti e oggetti, a partire dal “piatto del re” che non è necessariamente regale, ma lo era la portata a cui era destinato, circostanza necessaria e sufficiente a farlo amare da tutti noi golosi. Praticamente, ti aspetteresti di trovarlo in una delle cene di Francesco Berti Riboli che è l’anello mancante fra il signore rinascimentale, il Mecenate moderno e tanto altro, una specie di essere mitologico, metà uomo e metà gourmand.
Si passa poi ai quadri che non hanno il fuoriclasse della situazione, il Caravaggio o il Messi della pittura, ma tanti ottimi lavoratori di centrocampo, con cui si vincono i mondiali.
E i soggetti lasciano più libertà a tutti: rispetto a Roma, infatti, dove di fatto l’unico committente è la Curia ed esce il Bernini della situazione, qui i committenti sono molto di più – banchieri, armatori, nobili genovesi – e quindi si moltiplicano i soggetti ed anche i pittori, dove ritroviamo la famiglia De Ferrari, i Piola, Magnasco e tante nostre antiche conoscenze del precedente “Mercoledì della cultura” a Palazzo Bianco.
Ma ogni quadro racconta una storia, ad esempio con Ercole rappresentato in sembianze da donna, anche bella prosperosa, che è molto anni Duemila come concetto, un Pride del Barocco. Oppure, tanti altri soggetti che sono come rappresentazioni teatrali, dove il soggetto religioso è quasi annullato dai movimenti scenografici dei protagonisti, che sono una rappresentazione vivente, una prova generale su tela. Insomma, semiologicamente, il contesto conta molto più del testo, che poi è sempre lo stesso; infatti, le storie religiose rappresentate si contano sulle dita di due mani, non c’è troppa fantasia degli artisti e dei committenti.
E poi c’è la sala dove invece i quadri sono con le cornici, dove la cornice spesso fa il quadro, come fosse un insegnamento filosofico. O, ancora, cito fior da fiore, la storia di Bernardo Strozzi, monaco che usciva dal convento per dipingere, con un apposito permesso dei superiori. Su su fino ai grandi cartelami di legno, che sono veri e propri apparati scenografici per le Chiese e i loro oratori, spesso strappati alle tarme. Come fossero manifesti viventi di eventi e storie religiose.
E ovviamente – e anche qui siamo a una grande divisione religiosa e filosofica del mondo – i protestanti e quindi gli artisti nordici che limitano sempre più, fino a farli scomparire, i soggetti religiosi e invece quelli cattolici che hanno proprio la rappresentazione di Cristo, della Madonna e dei Santi al centro dei loro soggetti e dell’uso della luce e dei colori. Due mondi.
Insomma, è una sorta di antologia di tanti temi questa mostra.
Uniti dalla parola “segreto”, dove per “segreto” si intende qualcosa che non è mai stato pubblicamente esposto prima e che le curatrici hanno strappato alle case private e alla storica riservatezza dei genovesi per renderle visibili a tutti, per qualche mese, come un’”edizione limitata” che si apre al mondo e che già si sa che poi tornerà nelle rispettive case.
Ed è quello che dà il valore alle serie limitate. Non il fatto di essere commercializzate, ma di sapere che dopo tot mesi non ne verranno più prodotte e solo chi le ha assaggiate, viste, gustate, indossate, può dire di esserci stato e di averle vissute.
Magari un po’ nostalgico o accolto dall’incredulità degli amici.
Ma fedele a un verso di De Andrè: “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”.
Ecco, questa mostra è esattamente così.