L’esperto di Perceptive Color Design ha guidato gli interventi che hanno interessato Villa Chiara. Ecco i suoi principi
Negli scorsi mesi estivi, Montallegro ha visto due importanti interventi architettonici che hanno coinvolto il blocco operatorio di alta complessità e gli spazi di accoglienza e attesa all’interno di Villa Chiara. Quest’ultimo intervento è stato ideato da Giulio Bertagna, esperto di Perceptive Color Design, con l’obiettivo di migliorare l’umanizzazione dell’ambiente di cura. Abbiamo discusso di questo progetto con lui.
– Che cosa si intende per Perceptive Color Design?
«Il Perceptive Color Design rappresenta l’evoluzione del Color Design, che riguarda la progettazione del colore in tutti i campi del design. Questo approccio unisce le competenze estetiche, tecniche e creative del Color Design alle neuroscienze, che spiegano come i sistemi fisiologici e psicologici interagiscano e come emozioni, sentimenti e comportamenti influenzino le interazioni sociali. In particolare, ho applicato questi concetti ai contesti critici dal punto di vista psicofisiologico, come gli ospedali».
– Quando ha iniziato a studiare questo approccio?
«Nel 1983 ho iniziato leggendo tutti i libri disponibili sull’argomento e ho poi approfondito a livello universitario. Ho avuto due maestri, il professor Franco Ferrillo, neurofisiopatologo dell’Università di Genova famoso per i suoi studi sui disturbi del sonno, e la professoressa Lucia Ronchi Rositani, fisica dell’Università di Firenze».
– L’uomo è al centro del progetto. In che modo?
«Senza una comprensione approfondita del funzionamento umano, è difficile progettare attorno a esso. Ho abbandonato l’ergonomia antropometrica per abbracciare l’ergonomia delle emozioni. Capire i meccanismi della percezione cognitiva, ovvero come la mente interpreta gli stimoli esterni e come l’uomo regola i suoi comportamenti in base a questi stimoli, può aiutare il progettista a creare spazi basati sui sentimenti e sulle risposte emotive».
– Quali sono le linee guida che orientano i suoi interventi negli spazi di cura?
«I miei primi studi si sono concentrati sulle case di cura per l’Alzheimer e per i malati di SLA. Quest’ultima malattia costringe l’uomo in una situazione tragica, in cui la mente è lucida ma il corpo è immobile. Mi sono focalizzato sull’unica parete che il malato può vedere, cercando di creare un elemento che rappresentasse una via di fuga mentale. Studiando configurazioni di forme e colori semplici, ho cercato di costruire un via di fuga, aprendo uno squarcio nella parete ma ostacolandolo al tempo stesso per stimolare la fantasia».
– “E questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…”
«Esattamente, mi ha ispirato la famosa siepe di Leopardi che, impedendo di guardare oltre, suggerisce che c’è un oltre che si può immaginare. Ho sfondato la parete, creando un punto focale nel mio lavoro. Creo punti di fissazione che diventano una sorta di Lego per il cervello, con cui costruire un paesaggio immaginario ideato dalla mente dell’osservatore».
– Questi elementi non devono dunque essere troppo figurativi.
«Gli elementi figurativi limitano la fantasia. È come quando da bambini ci davano giocattoli che facevano tutto da soli. L’unico modo per giocare veramente era smontarli e trovare nuove funzioni. Questo è il principio delle configurazioni percettive che creo, che però devono essere integrate con gli altri elementi che si trovano negli ospedali».
– Dove spesso l’ordine architettonico è scombussolato dalle emergenze e dove il bello è assoggettato alla funzionalità.
«Non basta costruire dei quadri percettivi per risolvere il problema, perché in un ospedale ci sono molteplici elementi che definisco rumore visivo: gli estintori, i quadri elettrici, le prese, le barelle, i cartelli di sicurezza, i messaggi scritti a mano. Alla fine le persone si trovano alle prese con una marea di segnali che li aiutano solamente a perdersi, un problema reale nei grandi ospedali».
– In questo sistema iperstimolante, il minimalismo può essere una soluzione?
«No, perché è praticamente impossibile da realizzare in un ospedale e potrebbe tradursi in vuoto assoluto. Il minimalismo, se ben realizzato, richiede una ricerca della qualità delle superfici e dei materiali impossibile da applicare in questo contesto. Un ospedale accogliente non deve necessariamente avere materiali di lusso o opere d’arte, ma deve essere organizzato, pulito, ben illuminato. Ridurre al minimo il rumore visivo aiuta a calmare le paure dei pazienti e a migliorare l’efficienza del personale».
– Questi principi sono stati applicati negli interventi a Montallegro?
«Sono stato coinvolto negli spazi di accoglienza di Villa Chiara. Ho cercato di cambiare il paradigma che una clinica privata debba significare materiali pregiati e sale d’attesa prestigiose, simili a un hotel di lusso più che a un ospedale. Il paziente sa bene dove si trova e l’ospedale deve rappresentare pulizia, organizzazione, luce e accoglienza. Altrimenti, si crea uno straniamento che può amplificare il trauma, piccolo o grande, che comporta una visita, il doversi spogliare, l’essere toccati da un estraneo».
– È necessaria maggiore consapevolezza in merito. Come pensa di formare i nuovi professionisti?
«Grazie alla collaborazione con l’Associazione Italiana Professionisti Interior Designer (AIPI), della quale sono stato presidente e di cui sono ora socio onorario, sto sviluppando corsi per gli studenti di architettura d’interni e interior design per insegnare loro come lavorare in ambienti ospedalieri. Ho presentato questo progetto all’ultimo convegno, tenutosi pochi giorni fa ad Assisi. C’è una necessità reale di una figura professionale intermedia tra i medici e gli architetti, che possa interpretare meglio le esigenze dei medici e tradurle in soluzioni architettoniche e di design».