Il direttore U.O. Complessa di Ortopedia e Traumatologia d’urgenza dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, da anni in attività in Montallegro, parla della sua professione e delle sue passioni

Federico Santolini, direttore U.O. Complessa di Ortopedia e Traumatologia d’urgenza dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, racconta i temi più significativi della propria professione, ma anche sul proprio vissuto privato e sul percorso e le motivazioni che lo hanno indotto a prestare il giuramento di Ippocrate.

– C’è un evento o una persona che l’ha ispirata nella scelta della sua professione?
«Sicuramente mio padre. Con un grande rimpianto: non essere riuscito a lavorare con lui. Una volta mi disse: “Vieni, è l’ultimo intervento che faccio”, e io gli risposi che ci sarebbero state altre occasioni. In realtà, poi si ammalò e non ci fu più modo di affiancarlo».

– Quali sono stati i progressi più significativi nella sua specialità da quando ha iniziato a lavorare?
«I progressi sono stati molteplici. Nei materiali, senza dubbio. Ma anche nelle conoscenze biologiche. Quando ho iniziato, si considerava l’osso solo come una struttura meccanica, invece ci siamo accorti che è il tessuto biologicamente più reattivo. Infatti è l’unico tessuto che, in caso di lesione, riforma osso, mentre tutti gli altri tessuti formano cicatrici. Ha una capacità di rigenerarsi incredibile e questo ci permette di creare nuovo osso».

– C’è un intervento particolarmente complesso che si ricorda?
«Ne ricordo tanti. Tra questi, uno di quelli che fece più scalpore fu il caso di un ragazzo che ebbe un incidente in moto e perse metà del femore. Visto che l’osso arrivò in buone condizioni, facemmo il tentativo di rimetterlo in sede, come se fosse un trapianto da cadavere. Così gli evitammo l’amputazione dell’arto».

– E un intervento particolarmente emozionante?
«Ricordo un ragazzo che perse 12 cm di tibia in un incidente stradale. Riuscimmo a rigenerare l’osso con la metodica del trasporto osseo, un trattamento lungo, ma efficace. Un giorno stavo tornando a casa, quando vidi un padre e un ragazzino che correvano. Il padre mi riconobbe e disse al ragazzino: “Ringrazia questo signore”. Il ragazzino, di 12 anni, chiese il perché e il padre gli rispose: “Se adesso corro con te è perché lui mi ha riallungato la gamba”. Fu un momento molto emozionante».

– Qual è il consiglio più importante che darebbe a un giovane medico che si avvicina alla sua specialità?
«Non contare il tempo! Il lavoro si fa facendolo. Non esistono sabato e domenica, giorno e notte. Per fare questo, bisogna avere una famiglia alle spalle e soprattutto una moglie che ti vuole bene e ti asseconda».

– C’è qualcosa che vorrebbe cambiare nell’attuale sistema sanitario?
«Basterebbe attuare quello che il sistema ci consentirebbe: premiare chi merita. Ma alla fine, tristemente, difendiamo la massa».

– Leviamoci il camice. Quali sono i suoi hobby preferiti?
«Mi piace stare con la famiglia, seguire concerti di musica rock, andare in barca e, naturalmente, seguire il Genoa».

– Qual è il suo gruppo preferito?
«Bruce Springsteen. Ho visto tantissimi suoi concerti, anche con i miei figli».

– E il Genoa?
«Più che una passione, una malattia genetica, impossibile da cambiare».

– Pratica o ha praticato qualche sport? Quale?
«Ho giocato a calcio, a tennis, sono andato in bicicletta e ho fatto moto da trial. Ma non sono quello che si dice uno sportivo praticante».

– Come riesce a mantenere un equilibrio tra vita professionale e vita privata?
«Bisogna avere una moglie santa e sapersi organizzare. È anche importante avere ottimi collaboratori».

– Cosa pensa la sua famiglia del suo impegno?
«Sono totalmente al mio fianco, anche se ogni tanto sbuffano, a ragione».

– I suoi figli prenderanno le orme del padre?
«Uno sì, gli altri fanno altro».

– Molti la conoscono per la sua attività di volontariato in Africa. Cosa significa questa attività per lei?
«Ha un posto importante nella mia vita. Mio padre mi ha insegnato che se uno comincia un’attività, bisogna farla bene, altrimenti non si comincia neanche. È diventato anche un mio motto. Impegnarmi per il Kenya e il Congo significa dare ad altre persone la possibilità di avere una vita migliore. Ma migliora anche la mia vita».

– Qual è il suo legame con Montallegro?
«Ho iniziato a frequentare la struttura da specializzando, prima con il professor Agrifoglio, poi con il professor Pipino. Poi ho iniziato a lavorarci in autonomia. Il mio rapporto con Montallegro è di assoluta piacevolezza, perché ci sono tutte le condizioni per poter lavorare bene. E devo dire che, tutte le volte che ho avuto bisogno di qualcosa, che sia stata la collaborazione per il Kenya, o l’organizzazione di un congresso, non mi sono mai sentito dire di no».

– C’è un episodio particolare che la lega a questa struttura?
«Ce ne sono tanti. Però voglio ricordare una persona, un mio compagno di corso, che a un certo punto mi ha richiamato a Montallegro. Era Gian Mazzarello, scomparso lo scorso anno. Quando penso a Montallegro, oltre che a Francesco Berti Riboli, penso a lui».

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