Massimiliano Lussana racconta lo speciale Mercoledì della cultura che Montallegro ha dedicato all’ampio spazio del Deposito di Palazzo Bianco, in cui trovano spazio più di 200 dipinti
È un mercoledì della cultura assolutamente speciale questo organizzato per la visita dei depositi di Palazzo Bianco da Villa Montallegro, perché ci regala una storia (e anche un museo) assolutamente inedita, per il semplice fatto che si tratta di sale normalmente chiuse, visitabili solo su appuntamento per ricercatori o in occasione di eventi speciali.
Ecco, i mercoledì di Montallegro voluti da Francesco Berti Riboli sono sempre eventi speciali, non solo questa volta. E lui è un sadico del piacere dell’arte, capace di organizzare una visita a una galleria d’arte moderna o addirittura alla pinacoteca divisionista di Tortona, nella terra di mezzo fra Piemonte, Liguria e Lombardia, dopo libagioni con gli amici. Dove a essere soggetti del divisionismo – nel senso strettamente letterale della parola –potevano essere gli amici satolli e mezzi ‘mbriachi del combinato disposto fra il Timorasso e le poesie immortali di Francesco Illuzzi.
Ma, stavolta, per questo mercoledì (e non solo) della cultura, se possibile, la parola “speciale” ha un significato ancor più forte, proprio perché da un lato parliamo di sale normalmente chiuse e dall’altro si tratta di un’ala del museo dove si espongono opere che non sono certamente prive di valore, ma che in un’ideale gerarchia dell’importanza pittorica vengono dopo quelle esposte nelle sale “normali” del palazzo. Insomma, se fosse una partita di calcio saremmo fra gli infortunati, gli squalificati, la panchina e la tribuna, cioè mezza Juventus di oggi per omaggiare proprio Berti Riboli che (nessuno è perfetto) è un “gobbo” sfegatato. Eppure, anche fra le riserve possono esserci anche dei campioni. Per restare nella metafora, Garcia a Napoli teneva in panchina Kvara e Zielinski… Poi, Garcia non ha fatto una bella fine, ma questa è un’altra storia.
L’ultimo tassello di questo parallelismo fra calcio e arte è la curatrice di tutto questo, Margherita Priarone, che è una fantasista dell’esposizione dell’arte, capace di saltare l’uomo e di dribblare ogni esposizione paludata e con la forza e la capacità di raccontare la verità e nient’altro che la verità con una passione e una capacità di divertire e interessare coloro che ascoltano davvero trascinante. Persino per chi, come chi scrive, non ha Pierfrancesco Piola, Luca Cambiaso, Domenico Fiasella, Bernardo Strozzi, Giovanni Andrea De Ferrari, Domenico Piola, Gioacchino Assereto e tutte le loro famiglie – perché qui ci sono generazioni e generazioni alle prese con la pittura – fra i propri principali beni culturali pittorici.
E così questo mercoledì diventa un viaggio attraverso gli allestimenti voluti da Franco Albini, con tanto di pezzi moderni e di sedie da spiaggia, ma anche una lettura filologica di tutta la storia, comprese le vicissitudini di Palazzo Bianco.
Così Margherita riesce a entusiasmarsi raccontando le storie dei restauratori e le loro specificità nell’operare: “Guardate come si vede che questi restauri risalgono agli anni Cinquanta, con reintelaiatura e schiacciamento della tela di Bernardo Castello”. E non manca nulla, nemmeno l’arte di illuminare i quadri “con le luci che qui nel deposito non sono ancora sufficientemente studiate, ma ci arriveremo”, ma anche ad accarezzare con gli occhi opere che lei pensa meriterebbero l’esposizione principale, ma sono qui semplicemente perché non c’è abbastanza spazio o non ci sono abbastanza custodi per tutti nelle sale “ufficiali” o anche perché sono disorganiche rispetto a una narrazione artistica scelta ai piani inferiori.
Insomma, possono essere mille i motivi per cui un quadro è qui e non nelle sale visitabili tutti i giorni.
E qui arriviamo al racconto anche fisico di tutto questo: perché Palazzo Bianco ha addirittura due depositi, questo che è una vera e propria esposizione aggiunta e un deposito più tradizionale nei sottotetti come ce lo immaginiamo con le tele più grandi adagiate in orizzontale e un ulteriore spazio dedicato alle cornici, catalogate anch’esse per la scelta di Albini di esporre i quadri quasi tutti “nudi” e senza cornice “come coleotteri”, come venne scritto e non per fare un complimento alla scelta. Molto minimalista, ma a mio parere anche molto azzeccata.
Ma lo straordinario e preziosissimo racconto di Margherita Priarone, oltre che sui particolari artistici, si concentra anche sulle vicissitudini storiche delle collezioni e a tratti si dipana come un romanzo giallo, con il racconto di interminabili discussioni a Palazzo Tursi in consiglio comunale dedicate alle attribuzioni e alla loro veridicità.
E c’è anche una protagonista assoluta di questo “Veramente falso”, come fosse un disco di Fiorello applicato alla pittura: Caterina Marcenaro, la curatrice che portò a Genova Albini, ma che non andava troppo per il sottile quando c’era da esporre qualcosa che magari non era un Van Dyck, un Rubens o un Tiziano, ma veniva venduto proprio come se fosse un Tiziano originale.
Poi, certo, un giorno, come il bimbo che dice che il re è nudo ne “I vestiti nuovi dell’imperatore”, Camillo Manzitti si presentò tranquillo tranquillo e disse: “Peccato che però l’originale di questo quadro sia esposto in un altro Paese e che quindi questa sia una copia”. Poi, come detto, la questione divenne un tormentone, anche politico.
In qualche caso, il dubbio sull’autenticità di alcuni quadri esposti resta ancor oggi, come l’”Ecce homo” di Caravaggio contestato da alcuni, ma al momento “autentico”; ma altri casi sono clamorosi, come una serie di dipinti – anche belli, va detto – attribuiti a Van Dyck, che vennero smascherati uno a uno quando si spiegò, semplicemente con l’ausilio delle guide turistiche e dei cataloghi dei musei, uno a uno dove stavano realmente i quadri impropriamente attribuiti al pittore fiammingo: ”No, guardate questo, quello vero intendo, è esposto a Londra”. “No, ragazzi, vi sbagliate quest’altro è a Madrid”. “Ma non vi siete accorti che questa è la copia identica di quello originale che sta a Vienna?”. Insomma, non propriamente un successone, da cui però le gestioni successive del museo, in una sorta di ex malo bonum, hanno però tratto un percorso diverso e ora reale, verrebbe da dire con un ossimoro.
Ogni sala è l’occasione per Margherita Priarone per raccontare le sue avvincenti storie, come se – oltre al deposito pregiatissimo dei quadri – fosse portatrice di un deposito delle storie.
Ecco, queste storie, anche quando raccontano quadri falsi, sono capolavori veri.