– Perché ha scelto la specializzazione in anestesia e rianimazione che, tra l’altro, comporta un lavoro in un ospedale con limiti per la libera professione?

«Perché è una specialità che ti richiede doti sia manuali sia tecniche; per la quale devi avere una conoscenza a 360 gradi della medicina e di tutti i processi fisiopatologici».

– L’anestesista è paragonabile a un mediano che “tiene assieme” la squadra permettendo al chirurgo-bomber di andare in rete? O anche l’anestesista spesso diventa bomber?

«È più il capitano della squadra, che avendo la visione d’insieme può impostare la strategia di gioco complessiva. Ma gioca in difesa, cercando di prevenire e in taluni casi deviare “tiri pericolosi”».

– Quale è l’elemento fondamentale nel rapporto tra anestesista a paziente?

«Comprendere le paure del paziente, siano esse di carattere pratico o emotivo. E mostrare comprensione mantenendo una comunicazione chiara in modo da instaurare un rapporto di fiducia reciproca. In sostanza: trattare come vorremmo essere trattati».

– Ogni anestesista tende a specializzarsi su tecniche particolari. Per esempio le moderne tecniche che consentono la gestione del dolore dopo un intervento chirugico. Lei quali predilige e perché?

«Premesso che tutte le tecniche sono valide se se ne ha conoscenza ed esperienza, il solo fatto di riuscire a ridurre l’impatto fisico ed emotivo dovuto al dolore postoperatorio è per noi fonte di grande soddisfazione. Personalmente prediligo le tecniche di blocco di parete (tap block) per rapidità di azione e di esecuzione, precisione e per profilo di sicurezza (bilancio a favore del beneficio rispetto al rischio). Se poi associamo questa tecnica all’ausilio di farmaci endovenosi anche di bassa potenza (ovviamente a bassissimo dosaggio azzerandone così gli effetti collaterali) il successo è assicurato».

– Un aneddoto che riassuma la sua esperienza professionale.

«Impossibile riassumere: ogni intervento, ogni paziente, ogni chirurgo, ogni situazione è differente nelle sue peculiarità. Ma questo mestiere mi ha insegnato che molto frequentemente ciò che appare non è ciò che è nella realtà, e che si trova una soluzione per quasi ogni problema».

– Alcuni pazienti temono di “svegliarsi” durante l’intervento chirurgico: è possibile? Come si evita questo rischio?

«C’è un’ampia bibliografia sull’argomento ed è pertanto possibile che ciò avvenga. Tuttavia oggi, con la misurazione dell’EEG intraoperatorio che nella nostra struttura si esegue di routine, questa possibilità è ridotta al minimo, per non dire è impossibile».

– Lei ha un passato in strutture pubbliche, ma ha scelto di entrare in una casa di cura privata. Quale è il progetto che l’ha convinta a fare questo passo?

«Il lavoro in una struttura privata risulta più gratificante dal momento che, pur mantenendoti aderente ai protocolli di sicurezza, ti permette di avere più tempo per il paziente e di operare pertanto delle scelte tagliate “su misura” sul paziente stesso. Riassumendo: risultato e customer satisfaction».

– A Montallegro il gruppo di anestesisti è considerato un elemento di qualità e di riconoscibilità. Lei come vive questa esperienza?

«Il solo far parte di un gruppo di professionisti così validi sia dal punto di vista della conoscenza che dell’esperienza sul campo, da un lato mi gratifica e dall’altro mi fa sentire “al sicuro”; garantisco che la seconda sensazione è la più importante».

La scheda di Giovanni Mancuso.

Qui il filmato dell’intervista doppia Giovanni Mancuso-David Razzoli.

Scritto da:

Mario Bottaro

Giornalista.