Massimiliano Lussana racconta la mostra in corso fino al 10 marzo al Sottoporticato di Palazzo Ducale
Per me, i mercoledì (e non solo) della cultura, sono sempre domenica.
Calma, calma, non mi sono rimbambito, non del tutto o non solo su questa vicenda, ma quello che voglio dire è che gli appuntamenti di Villa Montallegro sono sempre un momento di festa, di festa per la cultura e per la sua diffusione in città.
Ma se c’è una domenica più domenica di tutte è il mercoledì dedicato alla mostra “Children” di Steve McCurry in corso al Sottoporticato di Palazzo Ducale fino al 10 marzo, dal martedì alla domenica – e ridaje – dalle 10 alle 19. Perché, sinceramente, credo sia la mostra più bella fra le tante splendide mostre che abbiamo visto.
Bella da qualsiasi punto di vista la vediamo: perché è basata sugli articoli della convenzione Onu sui diritti dei minori, perché è allestita benissimo, con la retroilluminazione delle fotografie – che già aveva funzionato benissimo per l’esposizione fotografica dedicata a Letizia Battaglia – ma soprattutto perché è una mostra che emoziona.
E il più bel regalo di Villa Montallegro e di Francesco Berti Riboli a tutti noi appassionati di cultura è proprio quello di non tornare mai a casa come eravamo arrivati, ma sempre arricchiti di emozioni. Ecco, se possibile, questa volta le emozioni sono elevate a potenza.
E provo a ribaltarvele, a girarvele in modo disordinato, esattamente come le ho vissute io, a cavallo fra due gruppi di visita, il giallo e il rosso, da un lato perché sono casinista, disordinato e indisciplinato, ma dall’altro perché mi piacevano talmente queste fotografie da fermarmi e attardarmi nelle sale del Sottoporticato.
La prima di queste emozioni è quella che affiora dall’osservazione degli occhi dei bimbi delle fotografie. Che, come tutti i McCurry, trasudano colori e contrasti forti che sono la cifra stilistica del fotografo, ma soprattutto sono occhi che esprimono tutti i bambini del mondo. Nel senso letterale della parola, perché ci sono davvero bambini di molti Paesi, ricchi e poveri, fortunatissimi e in una situazione drammatica fin dalla nascita. In quegli occhi c’è tutto.
Soprattutto, lo sguardo di McCurry, anche quando racconta – e lo fa spesso – bambini che lavorano fin da giovanissimi o che sono in guerra, non è mai uno sguardo moralistico, ma sempre uno sguardo morale. E, davvero, c’è tutta la differenza del mondo in queste due parole: solitamente i moralisti sono dei cialtroni, i primi a dover essere moralizzati, i paladini della doppia morale, mentre coloro che ne hanno una – di morale – sono dei benemeriti. E lo sguardo di McCurry è esattamente così.
A un certo punto, una delle due nostre guide dice una cosa bellissima: «Non viene mai da dire “oh poverino”» e non credo si possa fare un complimento più grande allo sguardo di McCurry, perché le fotografie altro non sono che lo sguardo.
Capita quindi che dalle fotografie dei bambini che giocano in mezzo alla guerra emerga il divertimento e l’essere bimbi prima della guerra stessa.
Soprattutto, il fatto che le fotografie siano poste sulle pareti, ma anche in mezzo alla sale, fisse ma anche in versione video che scorrono una dopo l’altra, fa nascere una domanda, che sento ripetere varie volte: «Ma come si guarda questa mostra? Da che lato?».
E c’è un’altra variabile indipendente: sono in moltissimi a mettersi davanti alle fotografie e a fotografarle a loro volta, come in un gioco di specchi in cui i visitatori vogliono portarsi a casa la magia dell’autore.
E diventa quasi una poesia, con passaggi drammatici e anche sorrisi che affiorano in mezzo alle tragedie e ve li racconto come se fosse un rap, con le parole al posto delle fotografie, che certo non rendono le stesse emozioni, ma possono essere una sorta di guida alla visione.
I flipper in Libano in mezzo alle macerie e i bimbi che giocano sui carri amati, a Beirut come a Kandahar, in Afghanistan, e in entrambi i casi lanciano un messaggio molto più forte delle armi, così come quella che a mio parere è la foto più bella della mostra: un bimbo seduto su un marciapiede di Kuala Lumpur in Malaysia, mentre dietro di lui scorre una parata militare di cui noi non vediamo i volti e nemmeno i corpi dei soldati, ma soltanto gambe e piedi. E così è solo lui a risultare vivo.
La grandezza di McCurry è quella di essere sempre nel posto giusto al momento giusto, ma quello che a noi a volte pare assolutamente naturale e normalissimo, è spesso frutto di mesi di appostamenti, di studio delle persone, delle luci, delle ombre, del cielo e dei tramonti. Soprattutto, nei soggetti fotografati, anche quelli nelle situazioni più difficili, traspare la fiducia nei confronti del fotografo, non c’è mai rabbia e nemmeno sottomissione in quegli sguardi, ma semplicemente stima e fiducia umana, probabilmente conquistata in settimane o mesi per arrivare non a uno scatto, ma a “quello” scatto.
Le foto a Peshawar, in Pakistan, sembrano sipari teatrali e anche qui, come in ogni immagine, c’è dentro la storia del fotografo, che nasce come giornalista e studioso di storia del cinema e del teatro.
Personalmente, ho amato moltissimo la sezione in fondo alla mostra dedicata ai bimbi che studiano e per cui studiare è una conquista straordinaria: le bimbe che sollevano orgogliosissime le lavagnette nella scuola in Togo sono anch’esse sul mio personalissimo podio, probabilmente immediatamente sotto la foto della sfilata militare di Kuala Lumpur.
Ma ci sono anche i bimbi “ricchi” di Washington, del Texas, quelli che ballano in mezzo alla fontana e quelli di Roma o quelli di una processione religiosa a Enna, non troppo dissimile nei costumi da alcune delle foto realizzare nei Paesi islamici.
Insomma, ci portiamo dietro tantissimo da questa mostra e, davvero, la consiglio a tutti: da un lato si capisce il valore diverso che si dà al tempo nel mondo e noi, sempre di corsa, abbiamo solo da imparare.
Dall’altro, nelle immagini di McCurry si ritrovano i piccoli principi di Velazquez, con le fotografie che diventano quadri.
E tutto questo richiama tantissimi giovani e l’età media dei visitatori, molti anche turisti, è bassissima.
Mi pare l’ultimo capolavoro.