“Ottomani, Barbareschi, Mori e altre genti dell’arte”: il racconto di Lussana
"Fascinazioni, scontri, scambi" è il sottotitolo della mostra in corso a Palazzo Nicolosio Lomellino fino al 26 gennaio
Genovese per casoNon è una mostra, è quasi un racconto di Genova, del suo essere multietnica, del centro storico, dell’incontro fra culture, l’esposizione in corso a Palazzo Nicolosio Lomellino in via Garibaldi ancora fino al 26 gennaio, giovedì e venerdì dalle 16 alle 18 e sabato e domenica dalle 10 alle 18.
Insomma, questa mostra è stata protagonista dell’ultimo “Mercoledì (e non solo) della cultura” di Villa Montallegro che questa settimana ha avuto anche un appuntamento “fuori catalogo”, la presentazione della prossima stagione di Palazzo Ducale con il presidente Beppe Costa, la direttrice Ilaria Bonacossa e Francesco Berti Riboli che può indossare qualunque maglia – quella del Ducale o quella di Montallegro – ma riesce a sembrare sempre perfettamente in forma, come se avesse gli addominali scolpiti. Diciamo che si tratta di quelli della cultura, ovviamente, prima che Francesco si monti la testa.
Il titolo della mostra è quasi wertmulleriano – “Ottomani, Barbareschi, Mori e altre genti nell’arte a Genova” – con anche il sottotitolo che racconta moltissimo: “Fascinazioni, scontri, scambi”, organizzata in occasione del ventesimo anniversario dell’attività espositiva di Palazzo Nicolosio Lomellino, e siamo stati splendidamente accompagnati da Laura Stagno e Valentina Borniotto del DIRAAS, terribile acronimo che contraddistingue il Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università degli Studi di Genova.
Ma, al di là della sigla, che non è propriamente poetica, ad essere poetico è stato invece l’approccio e il racconto di questa mostra che provo a restituirvi un pezzetto alla volta, perché davvero merita di essere raccontata, ma soprattutto traslata anche a chi non c’era l’altro giorno per poterla vivere anche andando a visitare l’esposizione da soli.
E quindi si entra ricordando gli affreschi con le immagini dell’incontro fra l’Oriente e l’Occidente, che sono perfettamente speculari a quelli che raccontano l’arrivo in America e l’incontro con i nativi, gli indios e quelli che comunemente chiamiamo “gli indiani”.
Già nella prima sala torna quella splendida parola del sottotitolo che è “fascinazione” ed è qualcosa di assolutamente straordinario, come quando non puoi resistere a qualcosa di irresistibile, come le Sirene di Ulisse, come l’amore.
Qui la “fascinazione” è anche “curiosità e stupore” di fronte agli Ottomani. Ed è una situazione che torna anche negli elementi d’arredo presenti nelle sale di Palazzo Nicolosio Lomellino, a partire dai tappeti, che sono piazzati ovunque – nelle stanze e sui quadri – purché non per terra, perché avrebbero potuto sciuparsi. Addirittura, si vedono tappeti usati anche come tovaglie, tanto erano puliti ed intonsi. E la dimostrazione dell’importanza dei tappeti, generalmente di origine turca, arriva dal fatto che Andrea Doria, arcinemico dei Turchi, in realtà teneva centinaia di tappeti ottomani a casa sua, a Palazzo del Principe.
Ecco, se dovessi dire qualcosa che non mi aspettavo e che ritengo il vero valore aggiunto di questa mostra è (anche) tutto ciò che non sono semplici quadri e dipinti: penso, in particolare, alle manifatture arabe, sicule e turche e, per esempio, ai giochi da tavolo che erano anche la base del gioco d’azzardo dell’epoca. E quindi, eccoci viaggiare dal gioco dell’aquila a quello della fortuna e della disgrazia, con una sorta di emoticon che corrisponde ai vari tiri di dado, proprio come un antenato del gioco dell’oca. E alcuni aspetti assolutamente divertenti, come il fatto che il personaggio che sta fermo un giro è a cavalcioni sopra una tazza, come se fosse intento a importanti funzioni corporali.
Basta voltarsi sul muro di fronte per trovare forse il pezzo più bello della mostra, che è l’atto di capitolazione del sultano, come una pergamena che, nella sua grafia, ha un motivo per visitare l’esposizione, perché è arte pura, anche nella scrittura, nei caratteri, nell’inchiostro. Qui la “fascinazione” si respira, anche se non si capisce precisamente cosa ci sia scritto, ma è scritto benissimo.
E ancora, girando per le sale, ci si imbatte in mappe nautiche, ex voto della Madonna delle Grazie di Megli, sopra Recco, che diventa opera d’arte elevata a potenza, come le straordinarie focaccette della manifestazione che inaugura la stagione delle grandi sagre d’estate. E poi fregi e decorazioni dipinte sui quadri, ma che sono talmente reali, talmente pieni di elementi che li arricchiscono, talmente raffinati, che sembrano tridimensionali anche semplicemente guardandoli.
E poi il racconto delle curatrici che, a tratti, sembra preso da una delle prediche di don Paolo Marrè Brunenghi, nuovo parroco di San Pietro a Quinto, appassionato filologo e attento alle traduzioni delle sacre scritture dalle lingue originarie. Così, mentre si visita la mostra, ci si imbatte nella rappresentazione dei Magi, che il Vangelo non dice essere tre, nè re. Anzi, per gli appassionati del genere, consiglio il racconto del quarto Mago.
Personalmente, poi, la sala e i racconti che ho apprezzato di più in questo Mercoledì della cultura sono quelli relativi alla schiavitù e alla loro rappresentazione. Anche perché andare in porto o nelle case nobiliari era il miglior modo di incontrare razze diverse sul proprio cammino, a partire da quelli sulle galee, riconoscibili perché rasati con un ciuffo, mentre i criminali avevano la testa completamente rasata.
Il racconto storico di tutto questo è estremamente affascinante e avvincente, con molti liguri interessati e la possibilità di riscatto degli schiavi da parte dei parenti, con ruoli importanti dell’Ordine dei Trinitari e un apposito Magistrato del Riscatto, che è quasi una sorta di Riesame ante litteram.
E poi c’erano vari modi di cambiare status: la conversione o l’accantonamento del compenso per la fatica a bordo delle galee, che poteva costituire il tesoretto per riscattare la propria libertà.
Questa prima categoria di schiavi, quelli che potremmo chiamare “portuali” per identificare un’intera categoria dello shipping o della Blue Economy dell’epoca, aveva una catena alla caviglia, ma una volta che arrivava sulla terraferma e quindi doveva scaricare navi veniva lasciato senza catene, ma comunque con il ferro che cingeva le loro caviglie.
E poi c’era una seconda categoria, quella della servitù in casa, con quadri che ritraggono i servi molto molto neri, con il colore che un tempo veniva identificato come “testa di moro” sui tubetti delle vernici. Con la punta estrema del racconto che è il quadro francese dove una padrona bianchissima passa sul volto dello schiavo una spugna per sbiancarlo.
E il racconto della curatrice, splendido, spazia da Esopo, a Calimero a Michael Jackson.
In una mostra che restituisce addirittura di più di ciò che promette.