La responsabile del Laboratorio Analisi di Montallegro – e in particolare dell’Anatomia Patologica – parla della sua professione e delle sue passioni
Paola Baccini, ex direttore della S.C. Anatomia e Istologia Patologica della ASL Ligure 4 e oggi responsabile del Laboratorio Analisi di Montallegro – e in particolare dell’Anatomia Patologica – racconta gli aspetti più significativi della sua professione, il suo vissuto privato e le motivazioni che l’hanno spinta a scegliere la carriera medica.
– C’è un evento o una persona che l’ha ispirata nella scelta della sua professione?
«In realtà no. È sempre stata una mia aspirazione. Non c’erano medici in famiglia, però fin da bambina dicevo che avrei fatto il medico o il veterinario».
– In questi anni di lavoro, quali sono stati i progressi più significativi nella sua specialità?
«I progressi sono stati enormi, soprattutto sotto il profilo tecnologico. In passato la gestione del campione e la sua analisi erano quasi del tutto manuali, oggi abbiamo strumenti che ci consentono di lavorare in modo più efficiente e preciso. All’inizio della mia carriera c’erano poche colorazioni e si affacciava l’immunoistochimica. Oggi l’immunoistochimica e la biologia molecolare la stanno facendo “da padroni” perché consentono di indirizzare le terapie dei pazienti oncologici verso le “target therapy” che prima non esistevano».
– Non sempre nel suo lavoro c’è un rapporto diretto col paziente. Per lei è importante?
«Nasco come medico, volevo fare il medico di pronto soccorso o l’internista, con un contatto diretto col paziente. Quando ho scelto anatomia patologica, pensavo di perdere questo aspetto, ma per fortuna non è stato così. Ci sono momenti in cui mi trovo a tu per tu con i pazienti: quando faccio agoaspirati o agobiopsie, quando li saluto dopo un intervento. E poi, a volte, spiego direttamente a loro i referti, chiarisco i dubbi, cerco di essere empatica. È un aspetto a cui tengo particolarmente».
– C’è un episodio particolarmente significativo ed emozionante della sua carriera?
«Ce ne sono tanti, è difficile sceglierne uno. Sono tanti piccoli episodi, a volte anche solo un grazie da parte di un paziente. Ricordo in particolare una giovane donna, straniera, che aveva appena partorito e aveva scoperto un nodulo al seno. Era molto spaventata, sola. Quando le ho comunicato che non c’era nulla di grave, la sua felicità è stata anche la mia. Siamo rimaste in contatto».
– C’è un consiglio che darebbe a un giovane medico che si avvicina alla sua specialità?
«Di non chiudersi troppo nella superspecializzazione. Capisco che oggi la medicina vada in quella direzione, ma è importante mantenere una visione d’insieme, essere curiosi. Questo aiuta ad avere un quadro più completo e a gestire meglio le situazioni. Per me questo aspetto è sempre stato importantissimo e mi permette di gestire infiniti campi di patologia e non soltanto la mammella che ho studiato per anni».
– C’è qualcosa che vorrebbe cambiare nell’attuale sistema sanitario?
«I punti critici sono tanti, ma è fondamentale garantire l’accessibilità alle cure: a tutti, in tempi ragionevoli».
– Leviamoci il camice. Quali sono i suoi hobby preferiti?
«Adoro il CrossFit, ma in generale mi piace qualsiasi attività fisica. Poi sono molto appassionata di moda. E adoro i cani: ho una bassotta».
– Perché le piace faticare con il CrossFit?
«Lavoro tantissimo – anche 12-13 ore al giorno – e iniziare la giornata in palestra mi scarica e fa sì che io mi senta pronta per affrontare la giornata. Ho iniziato questa attività in un momento particolare, dopo la scomparsa di mia mamma. Avevo bisogno di qualcosa che mi aiutasse a reagire, a ritrovare l’energia e il CrossFit mi ha fatto scoprire risorse che non conoscevo, mi ha fatto uscire dalla mia zona di comfort e mi ha insegnato a superare i miei limiti».
– Parliamo di moda. C’è un capo, un accessorio, un colore che ama particolarmente?
«Il bordeaux è il mio colore preferito. Tra gli accessori, ho una grande attenzione per borse e scarpe. Questa passione mi viene da mia mamma che era bravissima a cucire. Da piccola giocavo con le stoffe, creavo abiti per le mie bambole. Avrei voluto fare una scuola di moda, ma a quei tempi erano tutte a Milano e non era possibile. Però la passione è rimasta».
– Come riesce a mantenere un equilibrio tra vita professionale e vita privata?
«Non è sempre facile! Mio marito fa il mio stesso lavoro, quindi mi capisce. Ci siamo conosciuti che già lavoravo tantissimo e lui lo sapeva. Cerchiamo di ritagliarci del tempo per noi, soprattutto nel weekend, ma lavoro quasi tutti i giorni. Ho ridotto a 6 giorni su 7, per avere un po’ di respiro. Ma non è sempre facile trovare l’equilibrio».
– Qual è il suo legame con la struttura di Montallegro?
«È un legame molto profondo, mi sento a casa. Ho scelto di lavorare in Montallegro, anche se avrei potuto fare altre scelte. Ma qui mi trovo bene, mi piace il modo di lavorare, l’ambiente. Mi sento libera di esprimere la mia professionalità, ma allo stesso tempo protetta, parte di un team. Le ragazze del laboratorio sono fantastiche: siamo un gruppo affiatato e questo è fondamentale».
– C’è un episodio particolare che la lega alla struttura?
«Mi viene in mente è legato a una delle mie prime esperienze in sala operatoria qui a Montallegro. Ero stata mandata al posto del professor Badini, il mio mentore, e mi sono trovata da sola a gestire il rapporto con un chirurgo urologo, bravissimo ma molto esigente. Essermela cavata brillantemente mi ha dato molta fiducia e mi ha fatto capire che ero sulla strada giusta».