Prostatectomia radicale
La prostata è una ghiandola della grandezza di una castagna posizionata sotto la vescica e attorno all’uretra che ha il compito di produrre parte del liquido seminale.
Con il termine di prostatectomia radicale si intende l’asportazione in blocco della prostata e delle vescicole seminali e la successiva anastomosi (= sutura) della vescica con il moncone uretrale.
L’intervento è di solito preceduto da una linfoadenectomia pelvica, cioè dall’asportazione dei linfonodi.
La decisione di sottoporre un Paziente all’intervento dipende dallo stadio clinico della malattia, dall’aspettativa di vita e dalle condizioni psicofisiche. In genere è ritenuto adatto a essere sottoposto all’intervento di prostatectomia radicale il Paziente con neoplasia prostatica clinicamente localizzata, con aspettativa di vita di almeno 10 anni e in condizioni generali soddisfacenti.
Lo scopo è la rimozione chirurgica di tutto il tumore, consentendo la guarigione del Paziente. Tuttavia all’esame istologico del pezzo asportato, in una percentuale di casi tra il 5 e 40%, il tumore risulta non essere confinato alla prostata.
Nella maggior parte dei casi, la perdita di sangue durante l’operazione è tale da non richiedere emotrasfusioni; è prudente prenotare 2-3 unità (sacche) di emazie concentrate (globuli rossi) o, nei casi in cui la lista d’attesa dia tempo sufficiente per farlo – e se le condizioni generali lo permettono – è consigliabile che il Paziente si sottoponga al prelievo di 1-2 unità di sangue da utilizzare in caso di (autotrasfusione).
La prostatectomia radicale può essere eseguita in anestesia generale o spinale.
L’intervento dura 2-3 ore e viene effettuato attraverso un’incisione dell’addome che va dall’ombelico alla sinfisi pubica; il primo tempo dell’intervento è la linfoadenectomia pelvica di stadiazione (processo che serve a stabilire se le cellule tumorali si sono diffuse ad altri organi).
Dopo l’asportazione dei linfonodi si procede alla prostatectomia radicale, le cui fasi si possono riassumere nei punti:
- sezione dei legamenti pubo-prostatici;
- legatura del complesso venoso dorsale;
- sezione dell’uretra;
- mobilizzazione della prostata e delle vescicole seminali, con sezione dei vasi deferenti (si tratta dei canali che bilateralmente portano gli spermatozoi dal testicolo alla vescicola seminale);
- sezione della giunzione prostato-vescicale;
- ricostruzione del collo vescicale;
- anastomosi (=sutura) tra vescica e uretra.
Al termine dell’intervento, viene lasciato a dimora in sede il catetere vescicale (inserito all’inizio dell’intervento) e posizionati i drenaggi (= tubo di silicone che ha lo scopo di consentire la fuoriuscita di sangue o altri liquidi dalla sede di intervento) addominali in numero variabile da 1 a 2.
Se il decorso post-operatorio è regolare, il Paziente potrà iniziare ad alimentarsi e a muoversi dopo 24-48 ore; la ferita viene medicata dopo 3-4 giorni e, dopo 7 giorni, vengono rimossi i primi punti di sutura, per poi completarne la rimozione entro 10 giorni dall’intervento.
In assenza di complicanze, il catetere vescicale è rimosso dopo 7-10 giorni e, successivamente i drenaggi. La degenza media è di 8-10 giorni; se le condizioni cliniche lo permettono, il Paziente può essere dimesso dopo 5 giorni; la rimozione di catetere e drenaggi avverrà ambulatorialmente.
Dopo la dimissione vengono suggeriti un periodo di convalescenza (ridotto stress fisico, scarsa attività sportiva, regime alimentare moderato, terapia antibiotica urinaria) e l’astensione dalle normali attività lavorative per periodo variabile tra i 20 e 30 giorni. È consigliabile evitare lunghi tragitti in macchina e l’uso di cicli e motocicli.
Il primo controllo è programmato a 40-60 giorni e prevede il dosaggio del PSA, l’esame delle urine e l’urinocoltura; quello successivo abitualmente è fissato a 6 mesi.
Un’evoluzione della prostatectomia radicale retropubica è la prostatectomia in video laparoscopia. Con questa tecnica si ha una minor morbilità peri-operatoria (vale a dire nel periodo dall’ospedalizzazione alla dismissione), sanguinamento contenuto, ridotto uso di farmaci analgesici e durata accorciata della degenza; gli studi a lungo termine sui risultati funzionali (mantenimento della potenza sessuale e della continenza) e oncologici (radicalità dell’intervento) non sembrano rilevare differenze con la l’intervento a cielo aperto. Gli svantaggi di questa tecnica sono i tempi di intervento aumentati e la curva di apprendimento necessaria al chirurgo per effettuare bene l’intervento.
Analogamente si può ragionare per l’evoluzione robotica di questa chirurgia: elevatissimi costi di acquisto dell’apparecchiatura e del canone di manutenzione, con tempi di chirurga allungati e curva di apprendimento per l’operatore piuttosto impegnativa
ne limitano la diffusione.
In alternativa ai trattamenti chirurgici possono essere adottate le strategie terapeutiche che descriviamo di seguito.
- Radioterapia esterna – In Pazienti con carcinoma prostatico localizzato i risultati sulla sopravvivenza sono simili a quelli ottenuti con la terapia chirurgica. Può essere riservata ai Pazienti con più di 70 anni di età o in condizioni generali non ottimali. Rispetto alla prostatectomia radicale, la radioterapia è caratterizzata da un più alto tasso (30-40%) di progressione biochimica (cioè un aumento del PSA); la durata del trattamento è di circa 8 settimane, con 5 sedute di terapia per settimana. Così come la chirurgia, anche la radioterapia esterna non è priva di complicanze: impotenza (20-90%); complicanze cardiovascolari (1-4%); lesioni rettali (0,1-0,3%); stenosi ano-rettali (2-23%); stenosi uretrali (0,6-32%); incontinenza totale (0-12,5%); presenta una mortalità dello 0,2-0,5%.
- Brachiterapia – Consiste nell’impianto di semi radioattivi all’interno della ghiandola prostatica sotto controllo ecografico. È indicata nel trattamento del carcinoma iniziale della prostata e, rispetto alla prostatectomia radicale e alla terapia radiante, presenta rischi minori di incontinenza e di impotenza. Rispetto alle terapie convenzionali le complicanze sono quindi minori, ma l’impiego è limitato a un ristretto numero di Pazienti.
- Vigile attesa – (in inglese “wait and see”) Consiste nell’astensione da ogni tipo di cura dal momento della diagnosi a quello in cui la malattia diviene clinicamente significativa (per sintomi locali o metastasi a distanza); è un’opzione terapeutica ragionevole per i Pazienti con carcinoma di grado 1 o 2 (Gleason’s Score inferiore o uguale a 7) e un’aspettativa di vita, per età avanzata e malattie associate, inferiore-uguale a 10 anni. Non esiste tuttavia nessuna certezza sulla prognosi e sull’identificazione del Paziente candidato “tipo” alla vigile attesa: deve comunque trattarsi di neoplasie incidentali o senza sintomi clinici di metastasi a distanza. Spetta al Paziente decidere se una virtuale probabilità di sopravvivenza superiore ai 10 anni vale il rischio delle complicanze delle varie forme di terapia attiva.